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LUCIA
                                 




ANNA:  Raccontami della stanza in cui siamo.

LUCIA: Questa è la stanza di Paola Spada e sono qui perchè lei mi ha voluta e mi ha coinvolto nella Casa della Mamma poi ho conosciuto anche tua nonna e ci sono le loro fotografie, pezzi di chi ha portato avanti tutto. Ora rivesto il ruolo che rivestivano loro e lascio anche io qualcosa di mio come la compagnia teatrale e piccoli oggetti…è sempre un circolo di storie qui dentro.  

A: E la tua storia com’è iniziata?
L: Sono venuta a Roma per l’università, ho studiato scienze politiche, e facendo la babysitter, perché ne avevo bisogno, ho capito che lavorare con i bambini mi piaceva molto, infatti decisi poi di prendere una doppia laurea e iniziare a lavorare negli asili. Era un’attitudine, era una cosa che avevo già in me penso…

A:  E come hai conosciuto la Casa?
L: Non ne sapevo nulla all’inizio, conoscevo gli orfanotrofi e basta…una collega mi disse che era una casa per mamme con bambini, ragazze giovani senza famiglia. E per me era impossibile proprio da immaginare e da rappresentare, io che avevo una famiglia grande sempre presente, non riuscivo a capire. Quindi sono venuta qui come volontaria e poi ho fatto un colloquio, non mi sentivo adeguata né all'altezza per fare l’educatrice, per avere quel tipo di responsabilità. 

A: Cosa ti ha spinto ad intraprendere questo nuovo percorso?
L: La possibilità di dare un futuro e una trasformazione a delle persone che sono state soltanto meno fortunate. Ho sempre pensato che però è un lavoro che si fa sulla professionalità non sull’improvvisazione, il lavoro trasformativo deve essere fatto bene, seguito. 

A:  E il primo approccio al lavoro com’è stato?
L:Con i bambini facilissimo, con le mamme molto più complesso perché eravamo coetanee e bisognava mettere un limite, non dovevo essere un’amica né una sorella…la prima volta che ho visto le mamme erano sedute ad un tavolo e mi ricordo solo che fosse tutto buio, un po’ angosciante.Sono delle donne con fatiche immense.

A:  Come sei riuscita ad instaurare un giusto legame?
L: Con il teatro, i miei genitori mi portavano a teatro con loro da piccola e ho sempre sentito che fossi nata lì, per le emozioni, per tutto e ho pensato potesse essere una buona aggiunta alla vita delle ragazze. Loro andavano a lavorare e poi tornavano qui e stavano qui tutto il tempo, io ho pensato che fosse bello far conoscere loro una nuova realtà. 

Abbiamo messo insieme il primo spettacolo nel ‘90. Per me era importante che si relazionassero anche con persone nuove, avevo chiesto infatti ad alcuni miei amici conosciuti grazie al teatro di aiutarmi a mostrare a queste ragazze tutte le qualità e le potenzialità che già avevano ma che non riuscivano a vedere da sole. 

A:  Quali pratiche metti in atto quando esci da qui e vai a casa?
L: Innanzitutto ho fatto dieci anni di analisi, perché questo lavoro vuol dire anche prendersi addosso tutto il loro dolore e trasformarlo, restituirlo in cose buone. L’altro elemento è che la mia vita è un’altra, la mia famiglia è mio marito e coltivo tutte le passioni che ho. Vado a casa a piedi e il lavoro non arriva lì. Vivo tutte le emozioni ma le vivo per me, qui devo essere autorevole, per dare loro sicurezza. 

A:  Quale pensi sia stato un punto di svolta all’interno della Casa della Mamma? 
L: Penso per esempio l’aver introdotto gli educatori maschi, perchè chi meglio di un educatore per queste ragazze che hanno avuto sempre riferimenti terribili può risanare per loro la figura dell’uomo. 

A:  In cosa si esprime il tuo essere donna?
L: Il mio essere donna è l’essere Lucia, nelle esperienze che ho avuto e da come le ho affrontate, da quello che è successo nella mia vita e per chi ricordo… Ho avuto la grande fortuna di avere due genitori che si sono amati tantissimo, noi figli venivamo dopo forse, mia madre era la regina di casa anche se mio padre era un uomo molto duro, lei era stimata. Mia madre parlava pochissimo, era una donna molto discreta e silenziosa ma quando diceva una parola era quella. Era una casa patriarcale sicuramente ma all’epoca era normale così, era normale che io potessi fare meno cose dei miei fratelli ma lasciando il paese ho lasciato quella concezione lì.